una lingua che univa, una lingua che divide ?

di Maurizio Bekar ©

Erano le due denominazioni ufficiali della lingua più diffusa e “unificante” dei vari popoli dell’ex Jugoslavia. Oggi viene sostituita da altre varianti di lingue ufficiali nazionali: il croato, il serbo, il bosniaco. La crisi jugoslava ha assegnato alla lingua forti significati simbolici, politici e di identità nazionale. È la scomparsa violenta di un’antica unità culturale? O il naturale affermarsi di identità nazionali finora represse?

 

Nota: L’articolo che segue è dell’ottobre del 1999, ed illustra la realtà dell’epoca. Dopo il 2000, con il crollo in Croazia del governo nazionalista dell’HDZ e la morte del Presidente Franjo Tudjman, e con il rovesciamento del regime di Milošević a Belgrado, la situazione ha subito molti miglioramenti. La realtà attuale (nel 2003 n.d.r.) non ha quindi più certi toni parossistici qui citati, sebbene non sia ancora totalmente superata sul piano culturale. Il testo che segue va quindi letto come una documentazione su una problematica ed un’epoca, e non come un testo d’attualità.

 
BREVE STORIA DELLA LINGUA SERBOCROATA, E DELLE SUE VARIANTI
 
  Come i popoli neolatini, anche i popoli e le lingue slave hanno radici comuni. Nel IX e X secolo le differenze tra le varie parlate slave erano minime, tanto che dal Nord della Russia alle sponde del Mediterraneo si utilizzavano gli stessi libri liturgici. Fu solo dall’XI secolo che cominciarono a svilupparsi diversità più sensibili, in direzione del russo, del bulgaro, del serbo e del croato.
 
  Serbi e croati nel VII secolo si stabilirono nelle attuali Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Croazia. Attraverso i secoli la loro antica lingua comune paleoslava (con un complicato alfabeto di origine religiosa, il glagolitico) cominciò a diversificarsi. I serbi, collocati nei territori più orientali, subirono gli influssi di Costantinopoli e dell’attuale Bulgaria, e adottarono infine l’alfabeto cirillico. I croati, insediati a Ovest, subirono invece l’influsso latino, adottandone vari riferimenti culturali e l’alfabeto (con alcune varianti fonetiche, oggi espresse con i caratteri ć č š ž đ).
 
  La lingua parlata di serbi e croati restava però molto simile, con alcune varianti geografiche. I linguisti individuano anche oggi tre principali dialetti, a seconda di come viene formulata l’interrogazione “che?”. Nell’area di Zagabria si usa il “kaj?”, da cui la denominazione di dialetto kajkavo, mentre in larga parte dell’Istria, della Dalmazia e delle isole si usa il ča (pronunciato “cia”), da cui la denominazione di čakavo. Infine in Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e in parte della Croazia prevale lo što, da cui la denominazione di štokavo, che è il dialetto più diffuso. A sua volta, però, all’interno dello štokavo si individuano tre modi diversi per esprimere (oralmente, o per iscritto) l’antica vocale “jat”, che in alcune aree diventa “e”, in altre “i”, e in altre ancora “je”; da qui la denominazione di “varianti linguistiche ekava, ikava, jekava”.
 
  Nell’intento di standardizzare l’uso della lingua, nel 1800 intellettuali serbi e croati portarono parallelamente all’adozione ufficiale come lingua letteraria del dialetto štokavo (nell’area serba con la variante ekava e l’alfabeto cirillico moderno, e in quella croata con la variante jekava e l’alfabeto latino). L’adozione della stessa base linguistica, seppure in due varianti, portò alla ratifica tra serbi e croati di più accordi (i cui più importanti furono quello di Vienna del 1850 e quello di Novi Sad del 1954) in cui si sosteneva che i due popoli avevano scelto la stessa lingua, con le sue due varianti, e in cui si stabiliva l’unione del serbocroato-croatoserbo (la prima dizione veniva usata comunemente dai serbi, e la seconda dai croati). Questi concetti furono più volte ribaditi, in varie forme ufficiali, fino ai primi anni ’90.
 
  La realtà dei fatti rimase però più complessa. Infatti le varianti dialettali kajkava e čakava continuarono a venir usate, come pure le varianti ikava, ekava e jekava, a volte sovrapposte alle varianti “ufficiali” (per esempio nella Serbia centrale si usò l’ekavo, mentre in quella meridionale prevalse lo jekavo, e l’alfabeto latino si accompagnava talvolta a quello cirillico; nel contempo nelle zone croate sopravvisse l’uso di più varietà dialettali). A seconda delle aree geografiche prevalsero anche differenze lessicali e sintattiche, dovute a differenti influenze linguistiche e storiche. Per esempio i serbi di Vojvodina e Krajina si trovarono a lungo a convivere assieme ai croati nell’Impero asburgico, mentre i croati di Slavonia ed Erzegovina si ritrovarono per secoli, assieme ai serbi, sotto la dominazione turca; esperienze da cui tutti mutuarono varie espressioni culturali e lessicali.
 
  Anche la politica influì sull’uso della lingua: subito dopo il crollo dell’Impero asburgico sloveni e croati si unirono alla Serbia, dando vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (divenuto nel 1928 Jugoslavia, cioè “Terra degli Slavi del Sud”). Spinti dall’afflato unitario i più importanti intellettuali croati, tra i quali l’illustre Miroslav Krleža, introdussero nel loro linguaggio vari serbismi, per simboleggiare con ciò un più forte legame tra i due popoli. Esperienza che però durò poco, perchè ben presto i croati cominciarono a lamentarsi delle politiche centralizzatrici e prevaricanti della Serbia; e gli intellettuali, in segno di protesta, riadottarono allora le varianti più tipicamente occidentali del croatoserbo.
 
  I croati (come gli sloveni e le altre nazionalità presenti in Jugoslavia) si dimostravano molto attenti alla tutela della propria identità ed autonomia, e riversavano tale sensibilità anche nelle questioni culturali e linguistiche. Così, a fianco delle dichiarazioni ufficiali di “una lingua, con due varianti” (che, soprattutto nell’epoca comunista, puntavano ad esaltare una ‘fratellanza’ tra gli Slavi del Sud), sorgevano dei tentativi di riaffermare le caratteristiche specifiche del croato come lingua diversa dal serbo. Lo stesso Krleža già nel 1967 propose di far riconoscere dalla Costituzione l’esistenza della “lingua croata”, intesa come a sé stante. 
 
  I tragici eventi degli anni ’90, con la guerra nell’ex Jugoslavia, hanno infine portato alla distruzione del concetto di unità del serbocroato-croatoserbo. La Croazia ha preso anche linguisticamente le distanze dai serbi, accentuando le specificità del croato, e cercando ripulirlo da serbismi e influenze turche (presenti soprattutto in Bosnia, ma diffuse anche altrove); altrettanto ha fatto la Serbia, puntando ad una lingua simbolo di ‘compattezza nazionale’. Non di meno hanno fatto i bosniaco-musulmani, che parlano oramai di una “lingua bosniaca” a se stante.
 
  In pochi oramai nell’ex Jugoslavia si azzardano a parlare di serbocroato o croatoserbo: l’indicazione dell’ex “lingua comune” assume infatti significati ben precisi, e politicamente quanto mai sgraditi.
  
CROATO, SERBO, BOSNIACO: TRAGICHE EVOLUZIONI DI UNA LINGUA COMUNE?
  
  “All’epoca della Jugoslavia socialista mi è capitato più volte di fare l’interprete per delle delegazioni ufficiali che parlavano il croatoserbo. Allora, prima di iniziare il lavoro di traduzione, io chiarivo alla delegazione che quella non era la mia lingua materna, e che mi scusavo quindi anticipatamente per gli errori che avrei sicuramente commesso, storpiando la loro bellissima lingua... Sentendo questa mi premessa, loro di solito si mettevano a ridere e con tono bonario mi dicevano che ci si saremmo senz’altro capiti... Ed alla fine non solo non ricevevo lamentele, ma spesso dei complimenti per l’ottima traduzione svolta!
 
  Oggi però non mi presterei più a tradurre verso il croato, in contesti ufficiali: in questi ultimi anni sono state introdotte così tante differenze, che per una buona traduzione il croatoserbo del passato non va più bene. E questo ora vale anche per il serbo, e per il ‘bosniaco’ che si vuole usare in Bosnia. Oggi, infatti, per fare delle buone traduzioni bisogna essersi specializzati in una di queste varianti...”
 
  A parlare così è Giorgio Visentin, un italiano che vive nell’ex Jugoslavia, a Capodistria, dalla fine della seconda guerra mondiale. Poliglotta, ex giornalista, è stato uno degli interpreti del protocollo ufficiale della Repubblica di Slovenia per le lingue slovena e italiana. Ma ha tradotto anche in altre lingue, tra le quali il croatoserbo: “Croato e serbo, oltre agli alfabeti diversi, hanno sempre avuto anche delle differenze lessicali e di sintassi; ma queste diversità erano percentualmente minime, nella lingua quotidiana. È vero che storicamente i croati hanno sempre cercato di evidenziare le specificità della loro lingua, ma è solo in questi ultimi anni, con l’indipendenza della Croazia e la guerra nell’ex Jugoslavia, che queste caratterizzazioni hanno assunto toni così marcati da sconfinare talvolta nel ridicolo. E parlo della realtà che conosco più da vicino, ma presumo che in Serbia e Bosnia sia avvenuto qualcosa di simile...”.
 
  Visentin, oggi cittadino sloveno, è uno dei pochi intervistati disposto a sostenere pubblicamente le sue affermazioni. I croati intervistati sono invece titubanti; accettano a parlare solo dietro la garanzia dell’anonimato: “La triste realtà” commenta uno di loro “è che chi vive o lavora in Croazia teme di subire ritorsioni, per delle opinioni che possono risultare politicamente sgradite, nel clima nazionalista che si è creato. E lo stesso varrà anche per i serbi, e per chiunque altro viva oggi in uno dei paesi toccati dalla guerra dell’ex Jugoslavia...”.
 
  I giudizi sulla situazione attuale sono netti: “Fino a pochi anni fa non si attribuivano significati particolari alle differenze tra serbo e croato, dato che tutti si comprendevano ugualmente. Chi ne dibatteva erano gli intellettuali; ma la gente comune non si preoccupava di queste cose. Solo negli ultimi anni la questione della lingua è diventato un fatto politico, fomentato come un elemento di identificazione nazionale”.
 
  Ma quando la stessa questione viene posta a chi si occupa di linguistica, tutto si fa più complesso: “Il fatto è che la lingua croata ha una logica diversa dal serbo, con una sintassi molto rigida. Ma negli anni si è affermato un linguaggio impreciso, che mutuava alcuni aspetti dal serbocroato, o da altre lingue, o da varietà locali di croato. Il risultato è che oggi spesso si usa un croato sgrammaticato, o con errori d’ortografia; e non mi riferisco solo agli studenti, ma anche a laureati, e a personaggi con incarichi pubblici! Quindi è ovvio che si tenti di far sì che la gente usi una lingua più corretta; e per far questo si cerca di normatizzarla, come fa ogni popolo con la propria lingua. 
 
  Ma, a partire dagli accordi sulla standardizzazione del serbocroato-croatoserbo, e soprattutto nell’epoca comunista, c’è stata una forte spinta ad esaltare gli elementi di comunanza fra serbo e croato, minimizzandone differenze e specificità. In questo senso va anche ricordato che nel 1971 fu pubblicato a Zagabria un Hrvatski pravopis (Manuale d’ortografia croata), scritto da tre linguisti - Stjepan Babić, Božidar Finka e Milan Moguš - che facevano riferimento esplicito alla lingua croata, e non più al croatoserbo. Ebbene: 300.000 copie di quel libro furono immediatamente ritirate dalla circolazione, e bruciate! Quel libro è stato poi ripubblicato solo nel 1994! Ed io mi chiedo cosa all’epoca desse così fastidio, di quel manuale di ‘ortografia croata’, tanto da farci sprofondare in pieno Medioevo, con i roghi dei libri...”.
 
  Che la situazione linguistica non fosse mai stata del tutto tranquilla nell’ex Jugoslavia lo conferma la professoressa Marija Mitrović, docente di letteratura della lingua serbocroata presso la Scuola Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste e presso l’Università di Venezia. Serba, figlia di madre croata e di padre sloveno, fino al 1993 era professore di jugoslavistica comparata e slovenistica all’Università di Belgrado; ma da allora ha abbandonato il suo paese a causa del clima nazionalistico che vi si respirava. “Nell’ex Jugoslavia il serbocroato (nelle sue due versioni, serba e croata), il macedone e lo sloveno ufficialmente avevano pari dignità. Tanto che in ogni istituzione federale documenti e scritte erano in tutte queste lingue e versioni. E negli uffici governativi ogni documento veniva tradotto anche in albanese, e persino nella variante bosniaca del serbocroato. L’unica istituzione federale ad usare solo il serbo (anche se scritto in caratteri latini) era l’esercito. Quindi, almeno formalmente, c’era un grande rispetto per le varie espressioni linguistiche.
 
  Nella realtà, però, il serbocroato era la lingua più diffusa; e così sloveno e macedone erano di fatto ridotti al rango di lingue ’di minoranza’, meno praticate. In una situazione per certi aspetti simile si trovavano i croati, che come gli sloveni hanno sempre cercato di curare la purezza della loro lingua; e in questo senso i croati si sono sempre sentiti oppressi dall’uso della ‘versione comune’ del serbocroato. Ma anche i bosniaci avevano le loro specificità linguistiche, con più rilevanti influenze turche...
 
  Quindi non è vero che la lingua ‘croata’ o il ‘bosniaco’ siano apparsi sulla scena solo con la crisi jugoslava degli anni ’90. Il problema è che la cura della purezza della propria lingua per certi aspetti è una cosa giusta e utile; ma esagerare è ridicolo...”. 
 
  Gli esempi non mancano: se dei termini abbastanza innocui, come “caffè”, vengono scritti kava in croato, kafa in serbo (usando i caratteri latini) e kahva in bosniaco, la “ripulitura della lingua” attuata in Croazia dopo l’indipendenza del 1991 ha portato anche all’introduzione di neologismi alquanto curiosi. Per esempio telefon (telefono) è divenuto brzoglas, che tradotto letteralmente significa “voce veloce”; televizija (televisione) è divenuta dalekovidnica (letteralmente: “si vede lontano”); helikopter (elicottero) è divenuto zrakomlat, cioè “macchina che batte l’aria”. Termini che sono stati codificati nei manuali di corretto uso della lingua, e che dovrebbero venir applicati in ogni circostanza, soprattutto ufficiale. Cosa che però avviene di rado, come precisa un giornalista croato: “Sono termini che nella vita quotidiana quasi nessuno usa. Anzi: in alcuni casi hanno suscitato una tale ilarità, che la fantasia popolare ha inventato dei termini parodistici di questa “pura lingua croata”. Uno dei più famosi è “okolovratni dopupak”, cioè “intorno al collo, fino all’ombelico”, che dovrebbe venir usato in sostituzione del più “impuro” termine “kravata”, cioè “cravatta”...”
 
  Ma c’è ben poco da ridere. Se infatti i croati si sono trovati a vivere in un contesto anche linguisticamente nazionalista (“però dopo la fine della guerra, dal 1995, grazie anche alle pressioni dell’Unione Europea, gli accenti più estremisti sono stati un po’ mitigati” aggiunge uno studente), i serbi non se la passano meglio. Come spiega la professoressa Mitrović, tutti i libri che si usano nelle scuole devono essere in cirillico (l’alfabeto latino è permesso solo per l’insegnamento delle lingue straniere), e nel linguaggio non sono più tollerati croatismi e influenze turche. Inoltre nella parte serba della Bosnia è stato proibito l’uso della variante croato-occidentale del serbocroato: tutto quello che viene pubblicato in alfabeto latino viene considerato un prodotto dell’opposizione politica. Nella Bosnia musulmana si insiste invece sull’uso di termini con influenze turche, e presso le moschee si insegna l’arabo. Ed in Montenegro c’è chi già vorrebbe l’istituzionalizzazione di una lingua separata dal serbo...
 
  E’ la fine forzata di una lingua e cultura comune? “Il fatto è” commenta la professoressa Mitrović “che gli Stati nazionali nascono su base etnica. E l’etnia vuole una ‘propria’ lingua. Così, per avere una propria lingua nazionale, qui si tendono a rimarcare differenze e specificità”.
 
  E tutto questo che cosa comporta? “Che sul piano della comunicazione quotidiana la gente resta in grado di capirsi, perchè le distanze che intercorrono tra serbo, croato e bosniaco sono più o meno le stesse che esistenti tra l’inglese britannico e quello americano. Però con il prevalere della funzione politica della lingua, intesa come strumento di identificazione nazionale e di rafforzamento dello Stato, si rende molto più pesante e difficile il clima culturale in cui la gente vive...”.
  
      Maurizio Bekar ©
  
  
  
Nota:  Questo articolo è stato scritto originariamente per il periodico culturale “Reset”, che l’ha pubblicato in forma parzialmente sintetizzata nel numero di dicembre del 1999.
 
 

© Maurizio Bekar, 1999: diritti riservati. Questo testo può essere liberamente consultato, oltre che citato in estratto, riprodotto e ridistribuito, citando nelle note: “Da: Maurizio Bekar © 1999, www.bekar.net” (se ripreso in estratto), o riproducendo integralmente questa nota di copyright, se ripreso integralmente.
 

 

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